Linus – Una Memoria speciale
Linus, Giorgio Scianna – Il Giorno sembra essersi dilatato, se ne comincia a parlare a inizio gennaio, gli eventi possono coprire più date. È un’organizzazione sempre più complessa.
Per tutti è diventato il mese della Memoria. A gennaio escono le novità: libri, film. A gennaio le scuole, le istituzioni si riattivano e organizzano ciascuna qualcosa. Trovo la cosa positiva, se la vediamo come un appuntamento prezioso per chi non è ebreo. Chi è ebreo sa già cosa è successo nei lager. Chi è ebreo ha sempre o quasi sempre almeno un parente che racconta, e almeno un parente che è stato ucciso nella Shoah. Gli ebrei non hanno bisogno in fondo del Giorno della Memoria, perché loro quella memoria la coltivano tutto l’anno, inevitabilmente. Del Giorno abbiamo bisogno noi che ebrei non siamo: è semplice ricordare le proprie sofferenze, ma ricordare quelle di un altro, e i motivi che le hanno generate, è un passaggio decisivo per essere più umani.
Una parte del dibattito si è anche concentrata sull’opportunità di avere un giorno dedicato. Per me è più interessante riflettere sul “come”, perché dentro di me è stimolante l’idea di avere un appuntamento, per lavorare tutto l’anno. Penso per esempio che la data scelta (il 27 gennaio) sia sbagliata perlomeno dal punto di vista simbolico: quella è la data della liberazione del più grande lager nazista, ma è una liberazione venuta da fuori, quasi capitata per caso nel flusso della guerra e nemmeno pianificata, voluta. Dopo quella data i lager in Germania hanno continuato a operare e a uccidere. È una data che non rappresenta gli sconfitti, i resistenti, ma solo un episodio. Per chi si occupa di Shoah per 365 giorni, quello della Memoria non è un giorno tanto diverso dagli altri. Trovo giusto che lo sia, però, per chi durante l’anno si occupa di altro: per questo motivo il “come” mi interpella. Non voglio che diventi un giorno sprecato.
1945-2015. Certo che per un ragazzo nato negli anni 2000 Auschwitz è preistoria…
Auschwitz, Napoleone, le Guerre Puniche… sono eventi assimilabili a un generico passato lontano. Per noi che abbiamo conosciuto qualche testimone, per noi che abbiamo avuto i nostri nonni in guerra, gli eventi attorno alla Seconda guerra mondiale non appaiono lontani. Ci sono familiari perché parte della nostra storia. La generazione dopo di noi non ha questa percezione del passato. Il passato è passato, punto. Guardarsi indietro, nella mentalità diffusa, sembra poi una operazione noiosa, inutile; ma chi fa didattica della Memoria sa anzitutto che non deve giudicare. Quando si è giovani, quando si è ragazzi, credo che la storia non vada conosciuta con lo sguardo degli storici, ma con lo sguardo della passione. È impossibile per un ragazzo immaginare cosa accadde in Europa settant’anni fa, ma a pensarci bene è impossibile anche per noi che siamo nati negli anni Sessanta o Settanta. È un percorso che siamo destinati a fare insieme, noi e i ragazzi. La storia interpella entrambi, prova a raccontarci cosa è accaduto ai nostri coetanei venuti prima di noi. La storia è da ascoltare, prima ancora che da studiare o da capire. E per ascoltarla a volte c’è bisogno di aiuto.
Ti capita mai di inciampare in pregiudizi, espressi o sotterranei, che tradiscono un clima intorno di poca sensibilità o, peggio, di negazionismo?
Prima o poi raccoglierò in un libro le frasi che nel tempo ho sentito, che nella maggior parte dei casi sono buffe. I ragazzi e i giovani non mi spaventano in questo senso, perché i negazionisti, quelli veri, sono tutti adulti. I giovani respirano un clima e, a volte stupidamente, se ne fanno portavoce. Un giorno, poco prima di entrare in una classe di quinta superiore, la professoressa mi avvisò: “Attento, due di loro sono affiliati a un club di estrema destra. Te ne accorgerai”. Pensai che poteva anche dirmelo prima, ma che non sarebbe stato un problema. Nel dibattito che ne seguì non arrivammo ai ferri corti ma di certo mi accorsi subito chi fossero quei due. Prendila così: a me sono stati simpatici. Anche se avevano idee balorde (ascoltate dagli adulti), anche se provavano a negare i numeri della Shoah pasticciando con la storia (come fanno i negazionisti). A me erano simpatici, perché con loro si era stabilito in qualche modo un confronto, pur teso, e un dialogo. Io di certo non sono stato simpatico a loro, e nemmeno avrei voluto. Ma loro sì, forse mi sono piaciuti più dei loro compagni che hanno passato quell’ora con le orecchie spente.
Forse le storie sono l’unico mezzo per fare arrivare davvero ai ragazzi quegli anni. Nella Repubblica delle farfalle hai raccontato una storia incredibile, quella di Terezín, un paese in quella che è oggi la Repubblica Ceca. Durante la Seconda guerra mondiale, era un campo di raccolta degli ebrei destinati allo sterminio. Vi furono rinchiuse 155 mila persone, ma meno di quattromila sono poi tornate a casa dai campi di Treblinka, Auschwitz-Birkenau e dagli altri lager del Reich dove erano state deportate. Tra queste 142 bambini. A Terezín c’era tutto: case, strade, musica, teatro. In una scena così le SS che pattugliavano il ghetto giorno e notte e il sangue per le strade sembrano degli intrusi. Come sei arrivato a questa storia?
Nel gennaio del 2003 ero partito per passare alcuni giorni a Praga, a casa di mio fratello. Lui si era trasferito là tre mesi prima, per lavoro. In quei giorni pensai che a poca distanza c’era il ghetto di Terezín: lo conoscevo perché lo avevo studiato, conoscevo le storie dei ragazzi e dei deportati ebrei che vi abitarono loro malgrado, ma non ero mai andato a visitarlo. Decisi che sarei partito per vedere il ghetto, e lo feci in un giorno di tempo terribile, una nevicata fortissima aveva colpito la città e la zona: presi il pullman (il numero 17, neanche a farlo apposta) e viaggiai per un’ora nelle campagne praghesi, bianche e piatte, fino a Terezín. Scesi nella tormenta, camminai per quelle strade, mi abbandonai su una panchina dopo aver spostato una bracciata di neve. Non durò più di un minuto, ma capii restando là seduto che Terezín mi stava ascoltando. E io avevo
voglia di parlargli. Avevo Terezín intorno a me: ci ho messo del tempo, ma dopo un po’ sono anche riuscito ad ascoltarlo io.
Mi sono affezionato: forse ognuno di noi dovrebbe farlo con un luogo del passato. Vero, di solito ci si affeziona a luoghi meno sinistri. A Terezín però vedo la speranza più della morte, vedo le storie di chi ha resistito, in tanti modi diversi, ci vedo le loro lotte, ci vedo il dolore indicibile. Ma ci vedo anche la forza che nessun luogo ci trasmette, ma quegli uomini e quelle donne sì; una forza che nessun libro contiene, ma quei ragazzi sì; una forza che è riuscita a non farsi inghiottire del tutto dai nazisti, non è rimasta perduta nel passato. È ancora qui, la senti?
La Shoah appartiene all’umanità. Spesso però nei dibattiti lo Stato israeliano viene tirato in ballo, per lo più a sproposito, quando si parla di vittime e rispetto delle minoranze nella storia e nella cronaca. Israele è un ospite ingombrante per chi deve parlare di queste cose?
Un giorno sono andato a correre con Shaul Ladany, che qui da noi è sconosciuto ma in Israele è una specie di mito: campione di marcia, e di mille altre cose. Ora è molto anziano, ma a marciare mi ha steso: mentre marciavamo, però, gli ho chiesto cosa pensa di Israele, la terra dove vive e che lo ha accolto dopo la guerra. Mi ha risposto come non mi aspettavo: “Israele è un sogno per la mia generazione. Ma non tutti i sogni si realizzano come volevi”. Israele non è nato in seguito alla Shoah e non esiste per “merito” della Shoah. Trovo fuorviante qualsiasi associazione, in positivo (chi dice “con quanto hanno sofferto, è giusto”) o in negativo (chi dice “guarda come trattano i Palestinesi, non hanno proprio imparato niente dalla Shoah”). Israele è un luogo che oggi ha un grande bisogno di pragmatismo, al suo interno e anche al suo esterno. La situazione continua a non risolversi perché quella terra è un simbolo, e finché la tratteremo come tale non si arriverà a nulla.