Radio Svizzera Italiana – Come il raggio di una lampadina

Radio Svizzera Italiana, Laura Forti – “La Repubblica delle farfalle” di Matteo Corradini a prima vista potrebbe appartenere a un genere, “la letteratura della shoah”, cioè quei libri che raccontano storie legate alla deportazione e al terribile periodo dello sterminio nazi-fascista; infatti è un libro su Terezin, la città fortezza vicino a Praga dove furono imprigionati dai tedeschi 144.000 ebrei in attesa di essere deportati nei lager, tra questi tanti bambini, di cui solo pochissimi fecero ritorno.  Ma sarebbe riduttivo fare di questo libro un racconto di genere, perché questa è anche e soprattutto una storia sull’amicizia e sul potere dell’immaginazione dell’essere umano.

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Corradini racconta infatti la vicenda di un gruppo di ragazzini che, nonostante le proibizioni e la paura, decidono di realizzare un giornalino, una specie di diario della memoria, nel quale possano scambiarsi impressioni e pensieri su quello che stanno vivendo. L’immagine delle farfalle nasce proprio da una fiaba mandata al giornale, un racconto dove si parla di una repubblica di farfalle bianche che una fata cattiva vuole friggere: insetti delicati che non sono forti e duri come i cervi volanti e come le cimici ma sono ancora indifesi e senza definizione di colore. E sono così anche i protagonisti adolescenti di questa storia, vulnerabili, bambini che devono crescere troppo in fretta e che più che a farfalle colorate fanno pensare a falene nere, silenziose e notturne. Infatti il rito della lettura e dello scambio di idee avviene sempre di notte, unico momento di relativa pace e di libertà, attorno alla fioca luce di una lampadina rubata, che sarebbe proibito avere. Il gruppo cerca di stare unito, di manifestarsi solidarietà, di strappare istanti di allegria e ribellione alla paura della morte e alla violenza che avvolge tutto, come la neve sporca, macchiata di sangue che copre il ghetto: e così c’è ancora spazio per l’amicizia, per la compassione verso chi ha perso la famiglia, c’è il dividere in sette una mela o una buccia di patata, il raccontarsi i sogni che spaventano o una storia divertente. Sullo sfondo, belva in agguato, in una notte che sembra non finire mai, c’è Terezin, la “città degli ebrei donata dal Fuhrer” come venne intitolato il grottesco documentario girato per le sue strade ad uso e consumo del mondo che stava a guardare: una città che ci viene mostrata attraverso lo sguardo del protagonista, che alterna alla triste parata e al patetico abbellimento, al persistere ostinato del teatro e della musica, la tragica visione dei morti lasciati a marcire, fagotti inforni impastati nel fango che non sono più persone ma cose, spazzatura o delle carrozzine abbandonate ai margini della foresta che un tempo contenevano bambini e che adesso cullano un’assenza.  La scelta di narrare in prima persona la storia è sicuramente suggestiva e coinvolgente: lo sguardo del ragazzo protagonista che ci racconta la sua esperienza fotografa orrore e dolcezza, diventa il nostro e per questo motivo il finale, anche se prevedibile, è ancora più amaro e colpisce nel profondo.

Come il raggio di quella fioca lampadina, la cui luce attira per l’ultima volta le farfalle, illuminandone il volo indifeso e disperato, prima del ritorno al buio.